“Basta con la teoria della fatalità, la fabbrica non deve essere un luogo di sterminio”. E’ il titolo dell’opuscoletto che mi è caduto sui piedi ieri sera, venerdì 29 aprile 2016, nella stanza del mio studio. Stavo prendendo il cappotto e spegnendo la luce, intorno alle ventuno. Ho pensato: il solito libro che crolla esausto dalla vecchia libreria! Ho riacceso la luce e ho raccolto l’opuscoletto sul primo processo Fibronit a Bari, uno degli ultimi ricordi di mio padre che mi consegnò mio nonno una sera d’estate: “..perché devi conoscere le battaglie fatte da tuo padre!” mi disse con occhi lucidi.
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Poche pagine che parlano di un gruppo di avvocati “democratici” (come li definisce l’Unità nel trafiletto a pag.12 del 9 Marzo 1975), tra cui mio padre, l’avvocato Peppino Triggiani, che proposero ricorso ex art.9 dello Statuto dei Lavoratori in difesa di 128 operai della FIBRONIT di Bari a tutela del diritto alla salute, con lo scopo di accertare la presenza di amianto nella cosiddetta “fabbrica della morte”.
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Era il mese di Aprile del ‘74 ed era stata introdotta –da poco- la legge 533 del ‘73 sul processo del lavoro. Fu l’inizio di stagioni irripetibili, di diritti e di civiltà, che segnarono l’inizio di grandi processi del lavoro presso la Pretura di Bari (e non solo), con il valido supporto della Cgil e con lo spirito democratico dei Magistrati baresi di quegli anni, che per un trentennio hanno garantito (e garantiscono) l’applicazione delle norme a tutela dei diritti dei lavoratori. Il Pretore Binetti mostrò grande sensibilità alla questione Fibronit e trasmise gli atti alla Procura per le violazioni del codice penale riscontrate per la tutela del diritto alla salute in fabbrica.
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Da quel momento le giovani vedove dei lavoratori morti di amianto ebbero motivi validi per credere nella giustizia, per poter raccontare ai loro figli (orfani) che la morte dei loro padri in fabbrica non era stata vana. All’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1975 il procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Bari, dott.Ignazio De Felice, disse: “non deve essere più consentito che alla logica del massimo profitto sia sacrificata ogni elementare preoccupazione dell’incolumità personale degli uomini addetti al lavoro”.
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Ne parlarono i giornali, l’Unità, il Messaggero e la Gazzetta del Mezzogiorno, fu una battaglia di civiltà. Voglio ricordare così quei valorosi Avvocati, coadiuvati da un Sindacato (Cgil) forte e da una Magistratura presente e sensibile alla tutela dei diritti dei lavoratori nelle fabbriche, che riuscirono a creare periodi irripetibili di vertenze collettive anche grazie ad un supporto normativo di fresca attuazione, come lo Statuto dei Lavoratori (l.300/70), la prima legge sul processo del lavoro (l.533/73), ma anche la (già esistente) legge 604/66 (che fu la capostipite dell’anzidetta battaglia di civiltà). C’era una “spinta ideologica” grande così.
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Faccio l’avvocato ormai da diciotto anni, e non ho mai più ritrovato (riletto) quella mobilitazione, quel fervore, quella voglia di mettere a disposizione della giustizia e della verità le proprie competenze professionali per la tutela dei diritti dei più deboli. E’ cambiato il modo di approcciarsi alle vertenze di lavoro, sono diminuite le vertenze collettive, l’avvocato è diventato una “monade“ (senza Dio e senza armonia, caro Leibniz) priva di forza, un individuo solo e spesso attaccato dalla stessa società, quasi fosse un nemico e non un garante delle difese della collettività.
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La sfida che attende noi avvocati lavoristi di seconda e terza generazione, fino ad oggi attenti lettori (per non dire spettatori) di quelle egregie battaglie, è quella di ritrovare i messaggi positivi dei nostri padri e tramandarli con gli occhi lucidi e col cuore in tumulto. Domani sarà ancora una volta primo Maggio, la festa del lavoro e dei lavoratori. Volevo festeggiarla con questo ricordo.