Il destino ha voluto che questa settimana la magistratura barese affrontasse e giudicasse due omicidi diversi tra loro, ma entrambi efferati e tragici. Due casi che, a nostro avviso, riaprono un dibattito che non riesce a trovare soluzione e che, ovviamente, non riguarda solo Bari: la giusta pena. La presunzione di innocenza sino a sentenza definitiva e il sacro santo diritto di difesa sono dei capisaldi del nostro sistema e guai se venissero meno. Non è questo il tema della discussione. Quindi, lo diciamo sin da subito, questa riflessione non vuole inserirsi nel solco dell’eterna battaglia tra “colpevolisti” e “innocentisti”. Quel che ci sta a cuore è capire se uno Stato democratico, come viene identificato quello italiano, possa ancora permettere che per un omicidio volontario venga sentenziata una pena di 16 anni, così come accaduto a Bari per l’assassinio del fotografo Scanni e del 38enne Di Terlizzi. Il primo ammazzato nel suo laboratorio a colpi di spranga, il secondo freddato da un proiettile vagante esploso nel parcheggio affollato di una discoteca. Due vite spezzate dalla follia di altri due uomini. Due vite che, secondo il nostro sistema giudiziario, valgono 16 anni di carcere, che diventeranno quasi certamente 11/12 per buona condotta. Ecco, il punto è questo: accertata la colpevolezza dell’imputato, verificata in un’aula di giustizia la responsabilità dell’assassino, può uno Stato democratico “premiarlo” perché ha fatto risparmiare tempo scegliendo il rito abbreviato, oppure riconoscendo attenuanti (generiche)? Ma quali attenuanti possono essere riconosciute a chi impugna una pistola e spara con l’intento di sopprimere un’altra vita? Quali attenuanti possono essere concesse a chi uccide la propria donna per gelosia, soffocandola e seviziandola? Il perdono, umano e religioso, non può essere confuso con la giustizia giusta.
Oltre i casi Scanni e H25, tra perdono e giustizia (giusta)
Pubblicato da: Vincenzo Damiani | Mer, 22 Marzo 2023 - 09:15
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