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Ave, Cesare di Joel ed Ethan Coen – Recensione

Pubblicato da: Claudia Carella | Mer, 22 Marzo 2023 - 09:07

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Ave, Cesare è il tributo dei fratelli Coen (registi, produttori e sceneggiatori del film) al mondo del cinema. Un film sul cinema stesso, su quella macchina crea sogni, potentissima e spietata che è Hollywood.

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Eppure, i Coen un film su Hollywood e sulla difficoltà di scrivere per l’industria cinematografica lo avevano già fatto, e Barton Fink, possiede tutto ciò che Ave, Cesare non ha.

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Ma andiamo per ordine, abbiamo detto che Ave, Cesare è un tributo; il film omaggia il cinema e la produzione hollywoodiana degli anni ’50 in maniera patinata e manierista. Il sipario si apre su quello che vuole essere una rivisitazione fedele ma attuale, o meglio un’imitazione artificiosa, del cinema di quegli anni.rnA farci da Cicerone tra un set e l’ altro, in mezzo a vicende paradossali, è uno degli attori feticcio dei Coen, Josh Brolin nelle vesti del produttore tuttofare e risolvi problemi (“fixer”).

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Il film si barcamena infatti tra svariate citazioni cinematografiche (Frances McDormand che fa bruciature di sigaretta sulla pellicola è una personale favorita), tra una performance attoriale e l’altra; George Clooney, altro regular della filmografia dei Coen, è la macchietta sprovveduta, Scarlett Johansson la diva problematica, Channing Tatum il ballerino di Tip Tap tutto muscoli. Tutto nello stile è omaggio, dalle prospettive centrali alla fotografia iconica, dalla plasticità della recitazione alla scelta dei set.

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Una sorta di operazione nostalgica percorre l’intera pellicola, pervasa, però, a tratti, da spunti di critica. Nonostante ci venga presentata l’età d’oro (Golden Age) di Hollywood, il ritratto fatto dai Coen dell’epoca è infatti piuttosto decadente.rnNella critica dei Coen non c’è, però, malizia, solo uno scrutare ingenuo che guarda al cinema, immutabile e maestoso mezzo, con una certa rassegnazione serena. Guardare i Coen parlare di Hollywood è, quindi, come assistere ad una sorta di safari nella savana. Uno spettacolo artefatto, per il gusto dello spettatore, in cui la bellezza e la grandiosità di quello che sta avvenendo ne anestetizza l’amoralità.

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Tuttavia, da questa loro ultima fatica filmica, i Coen vengono fuori come vincitori stanchi, predatori ammaestrati di un mondo finto e vanesio fatto di lustrini e ripetizioni. A sua volta, lo spettatore che esce dal cinema è divertito, intontito, distratto, ma non del tutto soddisfatto. Perché, proprio come agli spettacoli dei gladiatori, i Coen propongono come un intermezzo vivace ma che in nulla si avvicina ai picchi della loro attività artistica.

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Dicevamo prima di Barton Fink; dimentichiamoci il suo tormento interiore. Ma anche allontaniamoci dall’epopea tragi-comica dei perdenti di Fargo o Il Grande Lebowski. Il tono può essere lo stesso, leggero, scanzonato, caricaturale, ma la verità è che al cuore di quelle opere c’erano anti-eroi tragici. Senza la controparte drammatica questa commedia dei Coen risulta, invece, sterile, un eccesso stilistico inutile. Senza il ritmo dato dal dramma, il film non suscita nessuna discussione. Solo pacata accettazione e qualche sorriso di fronte allo spettacolo vano, tronfio e trito che è, purtroppo anche stavolta, Hollywood.

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