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Viviamo in un’era cinematografica (e televisiva) nella quale la figura del cattivo, specie quella del gangster, si dimostra foriera di un certo, insospettabile fascino, che si traduce in una moltitudine di progetti, più o meno riusciti, che hanno come centro gravitazionale il ruolo del cattivo, cattivo “figo” per l’esattezza. Per fare un esempio concreto e locale, si pensi a quel grande fenomeno mediatico e culturale rappresentato dalla serie televisiva Gomorra.
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Brian Hengeland, regista e (soprattutto) sceneggiatore americano di un certo calibro, ha quindi deciso di cavalcare quest’onda potenzialmente vincente, (ri)portando sul grande schermo la storia dei fratelli gemelli Reginald e Ronald Kray, entrati nella storia per essere stati i capi di un’organizzazione criminale britannica che ha imperato nella Londra degli anni Cinquanta e Sessanta. I Kray, originari del poverissimo quartiere della capitale inglese noto come East End, furono protagonisti di una rapida quanto studiata scalata al potere, divenendo in pochi anni i gangster più temuti e rispettati della loro città, gestendo, oltre ai vari, immaginabili racket, anche un famoso locale notturno, nel quale si esibirono, tra gli altri, Frank Sinatra, Diana Dors e Judy Garland.
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Di certo, i due fratelli vengono ricordati come figure sì controverse, ma anche assolutamente particolari nel loro genere. Reginald era un uomo tutto d’un pezzo, con una morale (tutta sua), innamorato di Frances Shea, con la quale si fidanzò quando lei aveva sedici anni per sposarla a ventidue, con una mente acuta e grandi capacità organizzative. Ogni Yin ha però immancabilmente il suo Yang, rappresentato in questo caso da Ronald. Questi era una variabile impazzita in un’equazione se non perfetta, perlomeno altamente funzionale. Omosessuale e orgoglioso delle sue preferenze sessuali, in un periodo nel quale di certo la comunità gay non godeva della minima accettazione, aveva una psiche complessa e contorta, soffrendo di un probabile disturbo di schizofrenia paranoide.
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Legend narra, quindi, in maniera sostanzialmente veritiera la vita dei due gemelli Kray, ricostruendone con dovizia l’ascesa e la conseguente, quanto inevitabile, caduta, dando pari spazio sia alla sfera privata della vita dei due protagonisti, sia a quella “pubblica” e “lavorativa”, in una storia sicuramente sui generis, fatta di momenti di gloria, ma soprattutto di tragedie, violenza e sangue.
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La vera particolarità di Legend sta nell’avere il protagonista Tom Hardy impegnato in entrambi i ruoli dei gemelli Kray. Negli anni, Hardy si è confermato come uno degli attori più esplosivi e carismatici della sua generazione, e in possesso di una carica espressiva e fisica non comune, ma, anzi, assai rara. Basti pensare ai suoi recenti impegni in Mad Max: Fury Road e Revenant – Redivivo, per averne un esempio. In Legend, l’attore britannico si “sdoppia” interpretando contemporaneamente (nella pellicola) due ruoli così simili quanto diametralmente opposti, praticamente dicotomici. Con grande impegno e intelligenza, Hardy “entra” alla perfezione sia in Reginald che in Ronald, e il risultato è spettacolare. E anche la sola e unica nota positiva di questo film.
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Perché Hengeland in Legend pasticcia, e non poco. La sceneggiatura è debole, troppo interessata a creare stupore nello spettatore puntando i riflettori sulle “peculiarità” dei protagonisti, dimenticandosi, di fatto, di tutto quello che rende un lungometraggio vincente. Questo film manca di ritmo, cosa che si traduce in diversi momenti catatonici nel corso delle sue oltre due ore di durata. Manca di un contesto: della Londra degli anni ’50 e ’60 non ci viene proposto praticamente nulla, tanto che gli anni passano nella storia, ma noi non ne abbiamo la minima percezione. Anzora, manca di caratterizzazione di tutti gli altri protagonisti della storia, i quali sono praticamente dei pupazzi senz’anima, buttati lì quasi per caso, come manichini di un crash test automobilistico, immobili e incapaci di opporsi in alcun modo all’energia cinetica prodotta dal moto della pellicola, e destinati solo a schiantarsi senza avere alcuna voce in capitolo. Soprattutto le figure femminili del lungometraggio, dalla moglie di Reginal, interpretata da Emily Browning, alla stessa madre dei gemelli sono presenze ectoplasmatiche quasi fastidiose. Anche parlando sotto il profilo meramente registico, Legend è raffazzonato e superficiale in tutta la sua durata.
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Una vera occasione persa, specie con un materiale di partenza potenzialmente molto fertile e con un attore straordinario quale è Tom Hardy, un pilota di Formula 1 alla guida di una Fiat Cinquecento Topolino, destinato a essere sorpassato e doppiato dal primo neo-patentato a bordo della Ferrari del papà. Che peccato.
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