Mi lascio carezzare dal vento freddo di Febbraio prima di entrare. Ogni mio gesto, perfino calpestare il marciapiede, a quest’ora scatena rumori infernali e riecheggi degni di un concerto rock, d’altro canto sono le 3 di notte, l’ora dei creativi e dei vampiri. E proprio come capita a chi ha a che fare con queste due tipologie (dis)umane, anche io so che trovarlo, intervistarlo, non è mai facile. Ringrazio qualcuno lassù nel cielo per averlo messo lungo la strada della mia vita, forse è solo per la nostra vecchia amicizia che stanotte avrà deciso di farsi picchettare dalle mie domande, chissà.
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Sono sicuro che l’ottimo caffè alla moka “come solo lui sa fare’’ mi ripagherà di questa gelida trasferta in notturna… ma saranno solo le sue parole, i suoi discorsi, il suono della sua voce a ristorarmi davvero.
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Vengo qui, infatti, ogni volta che lo stress quotidiano ed il bombardamento incessante del nulla riempiono la mia personale barra della sopportazione. Ogni tanto, infatti, mi ricordo di essere UMANO, e quindi di aver bisogno di ascoltare “altre parole”, di affrontare altri temi. Ogni tanto se ne avverte il bisogno, ogni tanto è la nostra stessa anima che va sfamata, ogni tanto si esplode di fronte alle previsioni del tempo, alle notizie sull’economia o al pollitically-correct ipocrita dei media. In quei momenti vengo qui, pronto a stoppare la mia fame chimica dell’anima… e a bermi un bel caffè alla moka, di quelli ‘’come solo lui sa fare’’.
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Bene amico mio, so che è una cosa che non sopporti e che cercherai un modo per dirmi una supercazzola in maniera da non rispondermi. Ma, sai, adesso lavoro per un quotidiano, quindi se ti devo intervistare… dovresti presentarti ai nostri lettori. O almeno provarci.
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Di solito sono le singole azioni di un soggetto a delinearne il profilo: il numero dei passi che ha intrapreso sulla sua strada e le modalità di appoggio dei piedi a terra ne fanno pian piano l’andatura e ne forgiano continuamente il carattere. Mi piace circoscrivermi come un “fumista” del suggestivo, un impavido scassinatore di pensieri, un “maledetto” imbrattacarte, un pragmatista visionario…
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Ecco. Puntualmente mi hai accontentato nel non accontentarmi. Visto che detesti le etichette, proverò io a qualificarti informando i lettori che sei un ragazzo di 27 anni, scrittore e professore di storia e filosofia (guai a chiamarlo prof!). All’attivo hai tre pubblicazioni pluripremiate di poesie e pensieri, vivi per il teatro come organizzatore e attore. Hai messo su un bel giro, una rete di giovani e brillanti menti, raccordando teatro, arte, musica, danza e proprietari di locali, associazioni, per tentare di accorciare questa nostra Puglia lunga e macchinosa. Pur essendo giovane sono anni che getti il sangue nel tentativo di diffondere l’arte, ehm… pardon, la cultura. (Mi guarda male)
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A mio parere arte e cultura sono poli diametralmente opposti tra loro che sono stati e vengono tutt’oggi erroneamente accostati o, addirittura, associati troppo spesso, quasi come se fossero sinonimi interscambiabili. Entrambe hanno senza dubbio perso quel “peso” sintomatico e vibrante che le caratterizzava linguisticamente e significativamente una volta: oramai parlare di “arte” o di “cultura” oggi sembra essere diventata una palestra labiale e mentale nel generare “cliché”. La cultura è sempre stata propria di un determinato Stato o di un determinato periodo storico in relazione, comunque, ad una società di cui è o è stata simbionte: rappresenta cioè in pieno il potere di una classe dirigente che dice cosa si deve e cosa non si deve fare, quali cose è dato sapersi e quali no, cosa si deve pensare e cosa no, cosa è opportuno dire e non dire, cosa studiare e cosa tralasciare, ecc.: una sorta di galateo del “buon vivere” in società. Naturalmente la staffetta tra i potenti sta ad una staffetta tra le culture quanto l’arte sta ad una rottura dichiarata o sapientemente celata di qualsivoglia schema culturale.
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E quindi, qual è il compito dell’arte?
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L’arte autentica ha il dovere umano e filosofico di distruggere con stili e modalità differenti la sicurezza e garanzia del dato di fatto, del “si fa così” e del “così si dice”, del “vado a teatro perché fa tendenza”, del “leggo questo libro perché è di moda al momento”, ecc. L’arte, quella non “spacciata per” e neanche quella del “siamo tutti artisti, ognuno a proprio modo”, dovrebbe – se creativa e inedita, se onesta e manifesta – dare la sveglia, stigmatizzando e scoperchiando il piattume mentale e sociale eccedente in uno Stato e in uno “stato di cose”. Mi piace più parlare di “coltura” che di cultura: la prima per lo meno fungerebbe da concime ad una eventuale edificazione prolifica.
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Il caffè è ormai pronto, l’odore infesta le stanze di questa casa come un fantasma nottambulo. Lui si allontana, smorza la fiammella azzurra del gas, sento anche rumore di stoviglie e tazzine che si sfregano. Mamma che bontà il caffè di Aldo… mi porta alla mente i lunghi pomeriggi di studio, quando ne drinkavamo a ettolitri, mi porta alla mente i simposi culturaleggianti che non di rado organizzavamo coinvolgendo compagni di scuola e docenti, ma soprattutto mi ricorda la gestazione degli esami di stato, fatta di sfiancanti maratone notturne di ripasso, con quel magico elisir alla caffeina sempre presente. Accipicchia, quanti anni sono passati… mi sa che assieme al caffè adesso mi farò una bella sorsata di calda nostalgia. Nell’attesa, scarabocchio su di un tovagliolo un disegnetto buffissimo, la caricatura di questo caffè letterario notturno, denso e senza senso. Forse ne farò la foto per l’articolo.
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Prof dai, non dovevi disturbarti tanto (faccio io, sapendo di mentire).
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Ma che dici! E smettila di chiamarmi prof! (Mi rimprovera stando ben attento a non far traballare le tazzine sul piccolo vassoio in plastica). Non ero mica obbligato a farlo. Per me è un rituale sacro e divertente.
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A proposito di Dovere e Piacere… Facendo il verso a Philippe Noiret in quel capolavoro di film che è “Amici miei”, la vita la vedi più come un parco giochi o come una condanna ai lavori forzati?
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Mi sembrano immagini troppo estreme per i miei gusti: credo ci sia un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, ma non esiste un bianco e un nero, anche se a molti di noi piace pensarlo. Preferisco la metafora di un arazzo tessuto da vari fili intrecciati e avviluppati tra loro, l’uno di un colore diverso dall’altro: la vita è fatta costitutivamente di una miriade di ossimori; sono i contrasti che rendono viva la vita. Guai a viverla di un colore solo!
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E tu a cosa ti ispiri mentre lavori all’uncinetto? (Sorrido). Voglio dire, il tuo mito, Woody Allen, dice che si ispira alla vita reale nel fare cinema, ma che il reale purtroppo si ispira alla tv. Tu e la tua inventiva, invece, da quale pozzo petrOnirico andate ad attingere materiale greggio da raffinare?
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Penso che per chi come me “va’ a nozze” con le “finzioni”, niente risulta essere più reale di una definizione o etichetta: il segreto è di non prendersi mai troppo sul serio e non farlo soprattutto con gli altri. Il mondo ispira il mondo stesso nel positivo come nel negativo: una sorta di rito scongiurante a mo’ di giro giro tondo. Si trae spunto dall’altro che a sua volta è “timbrato” dal meccanismo sociale e culturale di cui fa parte. Personalmente prendo ispirazione dalla strada, dall’osservazione dei passanti, dai gesti che vedo svolazzare accanto a me, dai respiri respirati e dalle cigliate che lampeggiano di qua e di là sul sedile di un treno, dietro il finestrino di una macchina, sull’asfalto del marciapiede come tra il fogliame erboso, ecc. Mi piace insaporirmi dei profumi altrui per condire, con studio e rigore, sul palco come sul foglio, un’altra vita di altrettanti significati.
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In Italia le cose non sembrano volgere per il meglio, ma è tutto il mondo occidentale in crisi profonda. C’è una maniera di arrestare questo dissesto ideologico dilagante?
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Non c’è, secondo me, una ricetta bell’e fatta o già pronta all’uso e neanche una risposta risolutiva racchiusa all’interno di un mega biscotto della fortuna: la vera risposta sta nel non avere risposte, nel non smettere mai di domandarsi, nel porsi continuamente dubbi e perplessità, nel non avere mai certezze.
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Siamo sempre e comunque in “crisi”, dicesti una volta durante una storica interrogazione.
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Certo. Siamo sempre sull’orlo di un precipizio, anche quando meno ce lo aspettiamo, nel privato come nel pubblico, soprattutto quando i media non ce lo ricordano. Ma è proprio questo il bello: vivere sempre alla ricerca di un equilibrio instabile, ovvero dondolare senza anestetizzarsi o senza lasciarsi narcotizzare.
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La coscienza questa, sconosciuta… mi verrebbe da dire. Chi dovrebbe pentirsene, chi dovrebbe usarla?
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Penso che dovrebbe vergognarsene chi ritiene di non possederla, di non finire col farci i conti o, meglio, chi crede di non mettersi mai in gioco con sé stesso e chi non vuole rischiare mai. Come scrisse il buon vecchio Kant, chi non ha il coraggio di usare la propria “zucca”, pensando autonomamente, con criterio e criticità.
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Cosa cerca un pensatore nei suoi viaggi? Cosa cerca Aldo Calò Gabrieli nei suoi viaggi, sia fisici che mentali, in auto, su un tappeto volante, o nella pagina di un libro?
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Sai che odio le etichette appunto e che non mi piace essere definito pensatore. Comunque, sembrerà strano ma cerco disperatamente il contrasto; sì, il contrasto tra il suono e il rumore, tra il soffiato e il silenzio, tra il dicibile e il sacro non-detto.
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Ultima domanda e prometto di lasciarti ai tuoi non-pensieri, mio caro non-pensatore (lo faccio ridere). Ormai Morfeo ha smesso di suonare la sua lira da un pezzo, e anche il potere della caffeina, così come il tuo caffè alla moka, stanno per esaurirsi. Domanda a bruciapelo: la bellezza, quanto è vituperata? Incompresa? Definita inutile?
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Come ho scritto nella mia ultima pubblicazione poetica, contornata da CD multimediale, (“Ciò che resta” – FaLvision Editore), “Bellezza è rarità!”. La bellezza è inutile, deve esserlo! L’utilità è propria di un mezzo: la bellezza autentica è il solo fine. La bellezza dev’essere incompresa e inspiegabile. Non si può “trattare” la bellezza né parafrasarla o imprigionarla in statistiche infamanti. La bellezza per poter essere tale dev’essere vituperata: se così non fosse ci sarebbe una sola tinta o poco più sulla tavolozza del pittore, un solo tratto di penna nelle mani del bellimbusto autore, una solitaria nota sul pentagramma spirituale del musicante, ecc. La bellezza come la salvezza non sarebbero tali se la prima fosse apprezzata o colta universalmente e se la seconda fosse alla portata di tutti.
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Il pentagramma spirituale del musicante… amico mio, trafiggi sempre il cuore di questo umile cronista e ancor più umile amico. Ti ringrazio davvero per l’intervista.
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Molto affettuosamente mi abbraccia, poi mi accompagna alla porta. Chiamo l’ascensore, le porte si aprono spalancando una luce accecante nel ventre oscuro di un grattacielo che, a quest’ora, sembra disabitato. Solo adesso mi rendo conto di aver dimenticato qualcosa sul tavolo… ma ormai è troppo tardi, ho già premuto la lettera T, e sto tornando sul pianeta Terra. Una volta sulla strada profumata dall’umido e dall’odore di pane croccante fuoriuscito da un forno non troppo lontano, prendo il cellulare e gli scrivo su WhatsApp:
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Aldus, sul tavolo devo aver dimenticato un disegnetto, la caricatura del nostro caffè. Ho pensato che potremmo farne la copertina di quest’articolo.
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Vuoi risalire o te la mando giù con l’ascensore?
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No, no, ci ho ripensato. Rimane da te. Sarà l’occasione per un nuovo caffè filosofale in notturna, amico mio.
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E già mi lecco i baffi al pensiero di un altro caffè così.
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Foto copertina: cinquerighe.it