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Deadpool, lungometraggio diretto da Tim Miller dedicato al Mercenario Chiacchierone dei fumetti Marvel, è finalmente uscito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo, comprese quelle italiane, raccogliendo grandissimi consensi (e incassi), ben al di sopra di ogni possibile aspettativa.
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I perché di tale affermazione sono presto detti: Deadpool è un personaggio dei fumetti con una storia relativamente recente (è stato creato nel 1991 da Rob Liefeld e Fabian Nicieza sulle pagine di New Mutants #98) e non è di certo un character dotato della notorietà e del “peso specifico” di altri personaggi della Casa delle Idee, come Spider-Man, o Iron Man, o Capitan America, per citarne qualcuno. In più, pur vivendo in un universo narrativo popolato da una moltitudine quasi infinita di supereroi, è tutto fuorché un eroe (e tantomeno super), trattandosi di un mercenario, assassino, completamente pazzo.
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Ancora, il personaggio appartiene alla grande famiglia dei mutanti di casa Marvel, assieme ai più noti X-Men, i cui diritti per la trasposizione cinematografica sono nelle mani della 20th Century Fox, e sui quali il dipartimento cinematografico della casa editrice americana (Marvel Studios) non ha alcun potere né voce in capitolo: dunque tale franchise è sotto il completo controllo di uno Studio che, negli anni, non ha di certo saputo valorizzare al meglio le produzioni di tali proprietà.
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In più, le tematiche e le atmosfere dei fumetti di Deadpool hanno un contenuto molto sensibile, in termini di violenza verbale e fisica, sicuramente non consoni a un pubblico di giovani, principale target per il quale i cosiddetti cinecomic sono realizzati. Difatti, questo film è rimasto a lungo in un imprecisato limbo, poiché la Fox riteneva che il gioco non valesse la proverbiale candela, e che realizzare un lungometraggio su Deadpool sarebbe stato un quasi sicuro fiasco.
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Invece, si è verificato l’esatto contrario, e il successo (meritato) di questo film si spiega analizzando la stessa natura ontologica di questo personaggio, il cui marchio di fabbrica per eccellenza è quello di essere al di fuori di ogni schema possibile, elemento che il regista Miller è stato in grado di carpire al meglio, dando vita a un film perfetto, nel suo essere folle, grottesco, a tratti demenziale e iper-violento.
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La trama del film, molto fedele alla fonte originale a fumetti, vede il protagonista Wade Wilson, soldato mercenario ritiratosi “a vita privata” dopo decine e decine di uccisioni, divenendo una sorta di “obiettore di coscienza” del suo stesso passato, trovare finalmente l’amore della sua vita e uno po’ di requie (o perlomeno una sua personale versione), salvo però scoprire poco dopo di avere un cancro terminale che lo condanna di fatto a morte. Desideroso di provare qualsiasi cosa pur di sopravvivere, Wilson si sottopone a un trattamento sperimentale segreto (e illegale) volto a risvegliare il suo gene mutante latente. Suo malgrado, tale esperimento si rivela un successo, trasformandolo in un mutante il cui potere è quello di avere un fattore rigenerante in grado di renderlo praticamente immortale. Tutto è bene ciò che finisce bene? Anche no, perché di fatto tale abilità metaumana è una diretta evoluzione della sua patologia neoplastica: in sostanza, il protagonista si trasforma in un tumore vivente che si estende a qualsiasi tessuto del suo organismo, permettendogli una continua e imperitura rigenerazione dello stesso, ma conferendogli anche un aspetto mostruoso, e portando la sua già instabile psiche a un definitivo punto di rottura che lo trascina nella pazzia più totale resa manifesta da una completa sindrome di tipo dissociativo. Come se non bastasse, il protagonista dovrà mettersi un costume per combattere la stessa organizzazione che lo ha trasformato in Deadpool, alla quale si è ribellato, per salvare la sua amata, che, va detto, è tutto fuorché una principessa rinchiusa in una torre. Da questo incipit prenderà il via una serie di eventi e battaglie al fulmicotone, senza alcuna esclusione di colpi, e tanto, tanto sangue. Il tutto accompagnato da dialoghi taglienti, amari e (auto)ironici, densi di riferimenti alla cultura pop, di ieri e di oggi.
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L’encomiabile riuscita di Deadpool (un vero e proprio miracolo, vi spiegheremo perché) ha un ragion d’essere molto specifica, che ha un nome e un cognome: Tim Miller. Il director è stato infatti il primo, e in principio l’unico, a credere nel potenziale cinematografico di questo personaggio dei fumetti, realizzando un breve footage di sua sponte, coinvolgendo sin dal principio l’attore protagonista Ryan Reynolds, e proponendolo così allo Studio. Questo è avvenuto anni fa, e per lungo tempo la 20th Century Fox è stata recalcitrante a riguardo. Tale situazione di stallo si è infine sbloccata quando un individuo la cui identità è ancora sconosciuta ha diffuso online il suddetto filmato, che è subito divenuto un fenomeno virale, con decine di condivisioni online. Sono stati dunque gli stessi spettatori a permettere la realizzazione di Deadpool, convincendo lo Studio del potenziale di un film di “supereroi” dedicato a un pubblico adulto: questo è il miracolo del quale vi accennavamo poco fa.
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Deadpool è un film realizzato con un budget relativamente esiguo per questo genere di pellicole, ma perfetto nel suo essere essenziale e character-driven. La sceneggiatura del lungometraggio (firmata da Rhett Reese e Paul Wernick), molto semplice nella sua struttura, si concentra infatti sugli elementi essenziali di questo personaggio: tanta azione, violenza iper-cinetica e volutamente gratuita e dialoghi graffianti, politicamente scorretti e densi di humor. La storia di Deadpool è sostanzialmente basilare: un uomo passa attraverso un suo personale inferno e da questo fa ritorno per vendicarsi dei suoi aguzzini e salvare la donna che ama. Tutti temi altamente inflazionati, che però consentono di evitare voli pindarici (e conseguenti schianti), mettendo in primo piano ciò che il pubblico desiderava da anni. Semplice e contestualmente geniale.
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La regia di Miller è altrettanto efficace, grazie a una costruzione dello storytelling che riesce ad arginare il vero limite di un film di origini di un personaggio dei fumetti, quello che spesso costringe tali pellicole a un primo atto verboso e lento, che deve spiegare alla sua audience le premesse di base, limitando tale parte a una sequenza di flashback intercalati tra i due blocchi principali della pellicola, i quali sono essenzialmemte due battaglie nelle quali non vi è nemmeno un attimo di stanca.
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In conclusione, Deadpool non è un film rivoluzionario e si attiene fondamentalmente alla struttura già consolidata da anni del genere cinecomic, muovendosi però entro questa in maniera molto dinamica e intelligente, rompendo ogni schema predefinito, senza disfarne le fondamenta. È proprio la “rottura” di ciò che è apparentemente indistruttibile il punto di forza dello stesso personaggio protagonista: nelle sue storie, infatti, Deadpool è pienamente conscio di essere un personaggio dei fumetti, cosa che gli consente di infrangere continuamente quella virtuale “quarta parete” che lo separa dal suo pubblico, al quale il Mercenario Chiacchierone finisce per rivolgersi direttamente più e più volte.
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Scanzonato, coinvolgente ed esilarante, Deadpool ha il potenziale per essere apprezzato da un’audience quantomai eterogenea, finendo paradossalmente per incuriosire e appassionare maggiormente proprio coloro che non hanno mai sfogliato un fumetto di supereroi in vita loro. E tutto questo, lasciatecelo dire, è davvero meraviglioso.
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