Intolleranza, discriminazione, ostilità razziale, sono episodi di cronaca ormai all’ordine del giorno, che hanno come denominatore comune una parola: il pregiudizio, un fenomeno esteso, che ci accompagna nella nostra vita quotidiana sempre, più di quanto vorremmo credere o ammettere. Pensiamo un po’ alle valutazioni che spesso ci ritroviamo a fare riguardo l’immigrazione: molte di queste risultano essere distorte. In genere tendiamo a sovrastimare il numero di immigrati presenti nella nostra società, ad ingigantire i problemi che queste persone possono porre, ad esagerare il loro ruolo nella criminalità, a sopravvalutare gli effetti che un aumento dell’immigrazione potrebbe avere sul nostro livello complessivo di sicurezza. Peraltro, non teniamo conto del fatto che la criminalità risulta quasi sempre in massima parte gestita dai nostri connazionali, soprattutto a livello organizzativo. Forse ancora più insidioso, come segno di pregiudizio, è quel senso di distanza, quasi sempre di superiorità, che spesso accompagna i nostri rapporti con chi appartiene ad un gruppo etnico diverso dal nostro. Ciò si verifica anche quando si sia animati da buone intenzioni e si sia convinti, a livello esplicito e consapevole, di essere ben disposti nei confronti del “diverso”. Pensiamo, ad esempio, a quante volte ci capita di essere eccessivamente gentili nei confronti di un immigrato o quando, rivolgerci ad uno di loro, magari neppur giovanissimo, usiamo il “tu” al posto del “lei”, diversamente da come faremmo con un nostro connazionale sconosciuto.
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Il pregiudizio, come afferma la parola stessa, è un giudizio che precede l’esperienza, si forma in assenza di dati empirici, ma su dati astratti, approssimativi, forzati ed affrettati. Un concetto che segue lo stesso passo di un suo stretto parente (lo stereotipo), con una sottile differenza: lo stereotipo è legato a un livello percettivo – mentale, ossia quell’insieme di credenze che un gruppo sociale ha nei confronti di un altro gruppo. Il pregiudizio, invece, rientra nella sfera emotiva: è una valutazione a priori, perlopiù negativa, che un gruppo effettua nei confronti di un altro gruppo. Potremmo dire che quando il pregiudizio assume forma permanente diventa uno stereotipo. Il pregiudizio è un bisogno mascherato di anticipare l’altro attraverso categorie pre-costituite, solo utili a gestire l’ansia del non prevedibile!
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Rispetto alla reazione europea di fronte ai flussi migratori degli ultimi anni emergono nella popolazione due sentimenti diversi: alle tante forme di solidarietà si oppongono una forte presa di distanza dagli immigrati. Nasce così il conflitto tra l’in-group (il mio gruppo di appartenenza) e l’ out-group (gli altri): il “noi” caratterizzato da sicurezza, certezza, prevedibilità, protezione, condivisioni di usi e costumi; il “loro” caratterizzato da diversità e paura, perché mettono in crisi il nostro gruppo di appartenenza, la nostra identità di popolo, il nostro bisogno intrinseco di prevedibilità. È proprio questo conflitto tra in-group e out-group che determina il pregiudizio. L’immigrato può essere percepito come un’ombra che turba la tranquillità del nostro gruppo, senza status, senza identità e in questo caso il pregiudizio nei suoi confronti sarà negativo. Al contrario lo straniero può essere ben accolto se viene da un contesto ricco, interessante e affascinante, seppur diverso dal nostro.
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Una delle possibili soluzioni per ridurre il pregiudizio e le conseguenti tensioni interetniche potrebbe essere il contatto diretto con i gruppi provenienti da altri contesti culturali, perché solo la conoscenza può dare gli strumenti per ridurre pregiudizio e conflittualità, allentando la paura del diverso.