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Bari – Dall’Africa all’Italia, alla ricerca di riscatto, con un impegno nella trasformazione del pomodoro, modello di lotta allo sfruttamento degli immigrati. Nella “terra dell’oro rosso” dove ogni estate migliaia di stranieri arrivano da tutta Italia per la raccolta nei campi, un laboratorio di migranti e disoccupati baresi punta a realizzare una filiera “pulita” della salsa del pomodoro. Il progetto nasce dall’iniziativa di tre realtà del Sud Italia: Diritti a Sud di Nardò (Lecce), Netzanet – Solidaria (Bari) e Osservatorio Migranti Basilicata/Fuori dal Ghetto di Palazzo San Gervasio e Venosa (Potenza).
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Il viaggio della speranza verso l’Italia
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Protagonista di questo percorso è Abu Moro, 37enne ghanese. La sua storia racchiude quella di tanti altri immigrati. Non di tutti, purtroppo: un viaggio per fuggire dalla guerra, la paura di non farcela, la certezza che qualcuno davvero non ce l’ha fatta. I ricordi di Moro sono tanti e passano attraverso un conflitto feroce e un confronto complesso con istituzioni e leggi italiane. Moro era tra i tanti sbarcati in Italia durante la prima guerra civile libica che da febbraio a ottobre 2011 vide opposte le forze lealiste di Mu’ammar Gheddafi e quelle dei rivoltosi sostenuti da Francia e Inghilterra. L’Italia, al tempo, si preparò – o almeno provò a farlo – ad affrontare una inevitabile emergenza umanitaria: 300mila migranti arrivarono sulle nostre coste con barconi di fortuna. Moro era tra questi: “Ricordo quella notte – racconta – tre miei compagni di traversata sono morti in mare. Non abbiamo potuto far niente per aiutarli. C’erano donne e bambini che piangevano. E’ stato terribile”.
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Dopo un breve passaggio in Sicilia, Moro – ad aprile 2011 – è stato trasferito nel Centro accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Bari. A molti suoi compagni di viaggio lo status di rifugiato politico è stato negato (per mancanza di requisiti) e la permanenza nel Cara si è rivelata molto più lunga del previsto. Il primo agosto dello stesso anno i migranti del Centro – pacifisti e non – bloccarono la statale 16 bis e i binari della linea ferroviaria (in quella manifestazione si distinse anche il criminale Kabobo, poi arrestato dopo una serie di aggressioni mortali a Milano). La protesta nasceva dalla richiesta dello status di profugo perché – pur non essendo libici – lavoravano nel paese di Gheddafi quando scoppiò la rivolta che dilaniò il paese nordafricano. Per Moro la permanenza nel Cara ora è solo un ricordo. E non dei migliori. Le condizioni di vita nel centro erano precarie:
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”Dormivamo in otto in uno spazio di 15 metri quadri. E spesso la convivenza non era facile".rn
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Il permesso di soggiorno, l’associazione “Solidaria” il progetto Sfruttamento zero
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Il passaggio dal Cara alla strada, con un pezzo di carta in tasca che gli garantisse la protezione internazionale (e quindi l’asilo politico), è durato due anni. La “protezione internazionale”, però, non garantisce un lavoro. E, a volte, è molto difficile non cercarlo nel posto sbagliato.
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Moro però ha incrociato – insieme ad altri immigrati – l’associazione “Solidaria”, e in particolare il progetto “SfruttaZero”. “Abbiamo coltivato pomodori – racconta Moro – e scelto di trasformare il pomodoro in salsa con attrezzature specifiche. Poi, abbiamo venduto il nostro prodotto nei mercati di Firenze, Milano, Roma. Il nostro obiettivo? Coinvolgere più amici possibili nella nostra impresa solidale”. Un lavoro di squadra, dignitosamente retribuito. E senza alcun problema di convivenza, sottolinea Moro.
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Fede musulmana e pace
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“Sono musulmano – aggiunge – tanti di noi lo sono. Ma prendiamo le distanze dall’attentato di Parigi. La nostra è una religione di pace”. E puntualizza: “In Africa, in gran parte dell’Africa, musulmani e cristiani convivono senza problemi. Per esempio mia cugina è cattolica. Sono andato al suo matrimonio. Ho partecipato anche alla cerimonia religiosa”. Poi sorride: “Dalle nostre parti, ci sono regolarmente matrimoni misti. E cattolici e musulmani non si fanno la guerra, ma provano anche ad amarsi”.