BoJack Horseman è un prodotto di punta di Netflix. Arrivata alla terza stagione, la serie ha raccolto un gruppo numeroso di fan, facendosi notare, al pari del sito che la ospita, come prodotto di nicchia per spettatori attenti per poi sbocciare nel consenso del grande pubblico nel corso dell’ultima batteria di episodi.
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BoJack è una star di Hollywood, un attore diventato famoso grazie a una scialba sit-com anni novanta che vive di rendita e investe fama e denaro in una sfilza di fallimenti relazionali e nell’alcool. BoJack è un cavallo, in un mondo in cui uomini e animali condividono società, costumi e aspirazioni – in un trionfo di interspecismo che travalica l’antropomorfismo da cartone animato a cui siamo abituati.
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Come nelle favole di Esopo, in cui gli animali rappresentano i vizi e le virtù degli uomini, il cavallo Horseman, insieme alla gatta Princess Caroline, al labrador Mr Peanutbutter e al resto del cast, sbattono sullo schermo dei nostri pc un racconto profondamente umano, intriso di ironia malinconica. BoJack, il Cavallo – per citare un altro esempio di animazione per adulti, I Griffin – è una persona orribile. Egoista, capriccioso, arrogante e inaffidabile, attaccato alla bottiglia e sessualmente disordinato, è il ritratto spietato del jet set americano e – di contro – di una società incline a mitizzare personaggi di poco (o nessun) spessore solo perché hanno attraversato il mondo fatato del piccolo o del grande schermo.
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Come spesso accade nelle grandi narrazioni contemporanee, la maschera grottesca del protagonista è un modo efficace di accattivarsi lo spettatore. Dal Portnoy di Philiph Roth allo Zeno di Italo Svevo, l’inettitudine del personaggio principale riesce a creare un’aura particolarmente funzionale al racconto dell’antieroe, colui le cui gesta sono degne di essere raccontate nonostante siano tutt’altro che esemplari o straordinarie. Allo stesso modo di Portnoy, in particolare, BoJack incarna la sessualità compulsiva e aggressiva dell’antieroe americano, ipertrofica e consumistica, in cui le donne sono o madri o puttane. Possiamo leggere in questa chiave il rapporto mai risolto tra BoJack e Princess Caroline, la sua manager, ex amante e sostituta materna, il cui ruolo – narrativo e esistenziale – nasce e muore nella cura del Cavallo che dà il nome alla serie.
La terza stagione segue l’evoluzione della storia di BoJack: scritturato per il ruolo della sua vita, l’atleta Secretariat, salvo dall’ennesima azione di autosabotaggio (nel finale della seconda stagione), BoJack sembra avercela fatta e, marionetta di un sistema troppo complesso per fallire a causa delle debolezze del singolo, l’attore di sit-com partecipa alla corsa per gli Oscar.
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Questo nuovo filone narrativo dà vita a situazioni estremamente divertenti e interessanti: dai numerosi flashback che raccontano le vite dei personaggi prima di conoscersi – grazie ai quali scopriamo che Mr Peanbutter è stato sposato con Jessica Biel e come Princess Caroline è diventata una manager – al ritratto spietato dello star system americano e del gioco dei premi e degli investimenti nell’industria cinematografica.
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Una puntata, però, si distingue da tutte le altre: Un pesce fuor d’acqua (3×04), è un piccolo tesoro di sceneggiatura e regia, nato dall’esigenza di scrivere un intero episodio in cui il protagonista (e i personaggi che interagiscono con lui) non può parlare. Invitato al Pacific Ocean Film Festival, che si tiene nella città sottomarina di Pacific Ocean, appunto, il verboso e egocentrico Cavallo deve rinunciare alla parola e vive un’avventura surreale, ritrovandosi in un’inedita veste paterna. Monco del suo principale strumento offensivo, BoJack capovolge momentaneamente il suo personaggio egocentrico e superficiale per diventare eroico e protettivo.
In questa terza stagione di BoJack Horseman si parla molto di paternità e maternità mancate, di adulti spaventati all’idea della responsabilità, sconfitti nel loro bisogno di crescita e nella loro vocazione ad amare. La mano degli autori tratta queste tematiche con un’ironia particolarmente feroce, attraverso il tritacarne del mondo dello spettacolo che cattura, mastica e vomita qualsiasi occasione di umanità – esemplare, a questo proposito, la puntata Brrap brrap pew pew (3×06).
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In sostanza, gli autori si sono dati in questa stagione l’opportunità di approfondire la complessità dello show, prestando particolare attenzione ai risvolti tragicomici delle fragilità dei vari personaggi, raggiungendo e superando l’obiettivo primario di una serie comica – quello di far ridere – per consacrare il Cavallo e i suoi compagni in uno dei prodotti meglio riusciti dell’ultimo anno.
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